Nel carcere di Rieti è iniziata una storia lieve, fatta di colore, matite e ascolto. Si chiama Disegnare in libertà ed è un progetto promosso dalla Caritas Diocesana, accolto con favore dalla direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Chiara Pellegrini, e dalla comandante della Polizia Penitenziaria, dott.ssa Daniela Nobile. A renderlo possibile è anche il sostegno concreto di ITAS Mutua, il gruppo assicurativo trentino che reinveste parte degli utili in iniziative sociali, grazie all’impegno dell’agente reatino Mario Iarussi.
Il progetto è stato affidato all’entusiasmo e alla generosità di tre artisti: Maria Rita Rossi (in arte Kikì), Silvia Ridolfi e Moreno Colasanti (in arte Sony), quest’ultimo con il ruolo di direttore artistico. Insieme portano avanti un laboratorio che, a poco a poco, si sta rivelando qualcosa di più di un semplice corso di disegno.
Non è la prima volta che l’arte entra in carcere, ma qui lo fa con una cura particolare: niente didattica frontale, niente programmi rigidi. Ogni lezione si costruisce passo dopo passo, osservando le persone, accogliendone i tempi, rispettandone le inclinazioni. L’approccio è quello del “fare”, dell’imparare attraverso l’esperienza, valorizzando ciò che ciascuno ha da esprimere.
I partecipanti sono cambiati nel corso delle settimane. Alcuni si sono persi per strada, altri si sono aggiunti. Ma ciò che resta è il clima: due ore leggere, vissute con rispetto, attenzione e una certa allegria. Il tempo sospeso del laboratorio si prolunga poi nelle celle, dove quasi tutti portano via un foglio per continuare a esercitarsi, o semplicemente per custodire quella sensazione di aver fatto qualcosa di bello. Alcuni disegni sono già stati inviati ai propri cari: piccoli segni che si fanno linguaggio e dono.
Gli insegnanti raccontano di mani diverse, inclinazioni diverse: c’è chi ha già confidenza con il disegno, chi si appassiona alle tecniche calligrafiche e al lettering, chi si affida alle proposte degli insegnanti, chi invece dà forma al proprio mondo interiore. Si usano matite, chine, pennini, acrilici, marker. Si provano paesaggi, volti, animali, parole. Ogni gesto, ogni tratto, porta con sé una domanda profonda e insieme semplice: cosa vuol dire libertà, quando la libertà è sospesa?
Per ora il progetto non prevede ancora graffiti o murales all’interno del carcere, ma si lavora su qualcosa di più essenziale: la costruzione di un gruppo, la creazione di una sintonia, la pazienza di attendere. Solo allora si potrà pensare a un’opera collettiva.
Intanto, Disegnare in libertà è già qualcosa che resta. Una piccola oasi, carica di significato. Una pausa di bellezza e umanità dentro un tempo difficile. Un’esperienza che, nelle parole degli insegnanti, “si sta rivelando per noi molto carica di significato, direi emozionante, per la sintonia umana che si riesce a creare con le persone che partecipano al laboratorio, del cui passato non sappiamo nulla, e di fronte ai quali ci poniamo con la migliore possibile predisposizione, desiderando dare loro la possibilità di vivere questa esperienza come una piccola oasi di ‘libertà’”.